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Alla fine del 1991 Oleg Kulik iniziò a organizzare una mostra dal titolo “Trasparenza”.
Scelse il momento giusto. Il putch di agosto era appena fallito e questo aveva dato una straordinaria scarica di energia agli imprenditori russi. I nuovi businessman russi, inebriati dall’assenza di controllo e di legalità, sviluppavano i loro affari alla velocità di una reazione nucleare. Guardavo con tristezza questo grandioso spettacolo in cui tutti i più alti interessi umani venivano a piegarsi di fronte alla forza del denaro. In un momento come questo, in cui si dava libero sfogo alle passioni più basse, ciò che gli artisti potevano proporre appariva piuttosto pallido e grigio. L’arte stava diventando di fronte ai nostri occhi un fatto esclusivamente personale, privato, cosa che del resto veniva dichiarata da una parte dei miei amici come nuovo manifesto estetico, ma che era a mio avviso assolutamente ridicola.  
A tutto questo un’alternativa c’era. Se comprendevo bene le intenzioni di Oleg, con “trasparenza” lui intendeva un tipo di arte capace di mimetizzarsi nella realtà sociale, di fondersi con essa, di rendersi invisibile, rimanendo al tempo stesso forte e indipendente. Del resto proprio da qui nasce la sua identità animale, per quanto abbia incontrato nella mia vita bestie ben peggiori. All’epoca facevo composizioni di grandi dimensioni, ma che tendevano a smaterializzarsi, al limite della ricezione visiva. Kulik vi trovava qualcosa di vicino alla sua idea, per questo mi invitò a partecipare al suo progetto.
Per la mostra era stato scelto un campo abbandonato dei giovani pionieri sovietici che si chiamava “Yurij Gagarin”. Andammo a vedere il posto. Edifici scrostati, campi sportivi invasi dalle erbacce, tabelloni per il punteggio scoloriti dal sole vicino a un’asta portabandiera. Non amo molto ricordare la mia giovinezza, ma qui non avevo scampo. Gagarin, l’assenza di gravità, la terra del campo dei pionieri intrisa di sperma, la convulsione di un’esistenza fisicamente pesante e difficile come quella del 1992 a Mosca dovevano fondersi in un’immagine unitaria. Dopo aver riflettuto un paio di mesi decisi di appendere sopra al campo una nuvola di volani del gioco del badminton.
Ecco l’idea, dovevo realizzarla. A questo punto intervenne il mio amico e coautore, Konstantin Bokhorov.  A lui devo la realizzazione plastica del lavoro e una serie di espedienti tecnici per il montaggio. Era settembre, nel giro di una settimana, sotto una pioggia torrenziale, appendemmo migliaia di volani. Giorno dopo giorno, dalla mattina alla sera.
Tutto il progetto era finanziato dalla galleria moscovita “Regina”. Fu un esempio di collaborazione, fantasmagorica, tra il capitale finanziario-industriale e l’arte contemporanea nella Russia del periodo successivo alla Perestroika. L’inaugurazione della mostra tirò avanti per tutta la notte e fu segnata da un fatto che fece clamore e che aveva qualcosa di profetico. Kulik sognava di riunire insieme businessman e artisti. Ma non si piacquero molto. La cosa finì a botte, o meglio alcuni artisti vennero picchiati dalle guardie del corpo degli uomini d’affari. In una notte nel campo dei pionieri, tra musica e balli zigani, tra spiedini di storione e una nuvola di volani sui fili tesi del badminton.


Dmitry Gutov. 10.04.2000
Traduzione: Nina Lumer